«la vita mi lascia sempre senza fiato»
Di Elizabeth Strout ho letto
quasi tutto, da “Olive Kitteridge” che le ha meritato il Pulitzer nel 2009, a
“Resta con me”, ai “I ragazzi Burgess”; invece non ho ancora letto "Amy ed Isabelle", ma ce l'ho fra le tante cose che mi propongo di leggere entro un
anno (o giù di lì....)
Questa primavera ho letto anche
“Mi chiamo Lucy Barton”, a distanza di qualche settimana dalla sua uscita in
Italia.
Il libro racconta la storia di Lucy, una scrittrice sui quaranta, mamma di due bambine, che
dopo un banale intervento di appendicite deve trattenersi per settimane in ospedale
a causa di alcune complicazioni impreviste. E’ sola, perché il marito deve
accudire le due figlie ancora piccole e non ha la possibilità ed il tempo di
conciliare lavoro, cura delle bambine e visite in ospedale, non in una città
come New York.
Un giorno, all’improvviso, si
presenta al suo capezzale sua madre.
Lucy non vede sua madre da molto, molto
tempo; non ha partecipato al suo matrimonio, non ha mai visto le sue figlie,
non si sentono mai. Si presenta in ospedale dopo aver viaggiato in aereo per la
prima volta e da sola, e come se il tempo non fosse mai trascorso e non ci
fossero state incomprensioni e silenzi tra di loro le dice “Ciao Lucy. Ciao
Bestiolina”. Tra madre e figlia ci sono stati molti silenzi e molte incomprensioni: l’infanzia di Lucy è stata
povera, triste, piena di umiliazioni, di privazioni, trascorsa in un
garage adattato a casa, con una madre ruvida e glaciale nella relazione con i
figli, con un padre assente e irascibile. Le due donne trascorrono le loro giornate parlando molto di cose poco importanti, di persone che entrambe conoscono, di qualche fatto del passato, cose così, all'apparenza senza grande importanza. Tutte e due, in modo diverso, sole, a tratti distanti l'una dall'altra, a momenti, invece vicine.
E’ un libro senza accadimenti di
rilievo, senza una vera e propria trama, eppure denso, a tratti doloroso; parte
da una fatto piuttosto semplice come un periodo di degenza in ospedale e risale piano
piano la china del tempo, dal presente a New York all’infanzia triste e piena
di privazioni di Lucy, in Illinois. In un percorso a ritroso in cui,
all’interno di capitoli via via sempre più brevi quasi fossero rapide
pennellate, ci si imbatte in alcuni corposi temi la cui rilevanza vale, da
sola, la pena di una lettura solo all’apparenza facile.
Colpiscono il rapporto difficile tra un
genitore ed il proprio figlio, l'incapacità di una madre di intrepretare la parte "morbida" del proprio ruolo, il come i limiti e i difetti e la parte meno risolta di una persona incidano sulla vita e sul carattere di un figlio, che prima si allontana e poi quasi si arrende, consapevole dell’esistenza di
confini che non potranno essere valicati, di distanze che non si farà in tempo
a colmare. E' impossibile, in fondo, staccarsi del tutto dal proprio passato e dalla
propria storia personale, nonostante il tempo, gli sforzi e la distanza anche
fisica da quelli che quel passato rappresentano di più; la solitudine, alla fine,
incolpevole o desiderata, è pur sempre solitudine.
Lucy e la madre non ricuciono il
loro rapporto, perché il loro rapporto forse non è recuperabile, non del tutto per lo
meno; non riescono a superare il confine, invisibile e al tempo stesso
ingombrante, superato il quale la vicinanza sarebbe possibile; non sono mai –
non lo sono mai state - sulla stessa lunghezza d’onda, sulla stessa riva, dalla
stessa parte del mondo. I loro mondi continueranno ad essere diversi e lontani
l’uno dall’altro, New York per Lucy la campagna dell’Illinois per la madre.
C’è qualcosa, però, che ai miei
occhi rende meno indigesta la constatazione di questa distanza e della sua
irrimediabilità, ed è il fatto che il lungo viaggio della madre di Lucy, il suo
arrivo del tutto inatteso in ospedale e la sua precisa determinazione di stare
al fianco della figlia in un momento di difficoltà, sia pure con i suoi modi
bruschi - del resto totalmente coerenti con la sua vita e suoi trascorsi - smorza almeno in parte l’amaro di questa storia: non si può
chiedere di più a chi, inconsapevolmente, non è disposto o capace di dare che
quello che dà...
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